Correvano i ruggenti anni Ottanta della mafia e un capitano dei carabinieri si ostinava a portare al palazzo di giustizia diagrammi e schemi costruiti a cerchi concentrici, e ogni cerchio un nome e una società. Come fosse una holding. Su tutti spiccava il nome di Bernardo Provenzano. In pochi capirono, o vollero continuare a indagare. E vent’anni dopo si è scoperta la verità: in quei diagrammi — conferma l’indagine di Ros e squadra mobile, coordinati dai pm Michele Prestipino e Marza Sabella — c’era già l’impero economico della nuova mafia. E’ la storia di un’altra importante indagine, completata nel 2002. Un’altra tappa di avvicinamento verso l’arresto dell’11 aprile.

Due i nomi che racchiudono il sempreverde metodo imprenditoriale di Bernardo Provenzano: Giuseppe Lipari e Tommaso Cannella, più volte inquisiti e condannati. Ma altrettanto confermati dal vertice mafioso, considerata la loro «autorevolezza e comprovata affidabilità personale», annotano i magistrati nell’ordine di arresto; ritenuta la loro «specchiata esperienza».

E così, in tutti questi anni — non importa se in carcere — Lipari ha continuato a fare l’amministratore del patrimonio di Provenzano, ma anche di Riina e Bagarella. Ha raccolto pure i soldi degli imprenditori per gli appalti concessi. Ed è stato coadiuvato da un’efficiente gestione familiare, complici la moglie Marianna, il figlio Arturo, la figlia Cinzia.

Anche Tommaso Cannella è per una gestione familiare, ma ha fatto tesoro di una delle lezioni più importanti di Provenzano, la trasversalità: «È un’autorità — dicono i carabinieri — un punto di riferimento per soggetti che appartengono anche ad aree diverse, per il sistema di spartizione degli appalti».

Con certosina pazienza, Lipari fa recapitare al padrino i classici bigliettini, ricolmi di indicazioni, anche troppe. Che adesso lo incastrano. Suggerisce di vendere le due ville di via del Cannolicchio, sotto Monreale, e gli appartamenti del Residence Conturrana, a San Vito, prima che la magistratura li sequestri. I ruggenti anni Ottanta erano passati e i boss lo avevano capito, cercando adesso di correre ai ripari.

Ma è inutile cercare altri beni immobili nel patrimonio di Provenzano. Non è la “roba” che lo interessa, piuttosto società e opere pubbliche.

Fedele amministratore è Lipari: nei bigliettini dà sempre del “lei” a don Bernardo. E il padrino è riconoscente: gli fa avere 70 milioni, come richiesto, per le spese legali. Lipari risponde ossequioso: «Sarà ratealmente restituito». Naturalmente la parola soldi è bandita. Nel gergo dei manager di Provenzano si chiamano “lenzuoli”.

L’azienda Lipari provvede a tutta la gestione del patrimonio mafioso. C’è da pensare non solo ai latitanti ma anche ai “cristiani”, i carcerati eccellenti della mafia, Riina in testa. E allora la holding Provenzano sperimenta un altro ramo d’azienda: è gestito dal “professore”, Leoluca Di Miceli, insegnante in pensione di Corleone. A lui vengono consegnati i soldi perché giungano alle famiglie dei “cristiani”. Gli inquirenti hanno documentato più di un incontro con il figlio di Riina, Giuseppe.

Il procuratore Grasso cerca di recuperare in fretta i vent’anni di sottovalutazione. E dispone il sequestro di molti dei beni gestiti dai manager che gestiscono la holding Provenzano.

DOCUMENTI
La richiesta di custodia cautelare della Procura, alla base dell’Ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Palermo Gioacchino Scaduto, il 24 gennaio 2002, nell’ambito del procedimento 3157/98 R.G.N.R., a carico di Lipari Giuseppe, Agosta Lorenzo più 28.

 

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