Per la prima volta, la sentenza su un delitto eccellente di mafia va oltre i soliti noti della Cupola, Riina, Provenzano e gli altri. Purtroppo, i mandanti in doppiopetto grigio sono morti da tempo, così per loro rimane solo una condanna morale, agli atti della storia degli ultimi vent'anni.
Sono i cugini Nino e Ignazio Salvo gli imputati che la Procura di Caltanissetta avrebbe voluto portare alla sbarra per la strage del 29 luglio 1983 in cui morì il giudice Rocco Chinnici, consigliere istruttore del Tribunale di Palermo; loro insieme a 15 boss, che sono stati poi condannati all'ergastolo il 14 aprile del 2000. I Salvo sono stati comunque una presenza costante per tutto il processo, nelle parole dei pentiti (da Brusca a Di Carlo) alle testimonianze degli investigatori. Ora invischiati nell'aggiustamento di qualche processo, ora al telefono con un altro potente siciliano, l'avvocato Vito Guarrasi, mentre parlano del "defunto". Ma la bobina dell'intercettazione, nella più classica delle tradizioni siciliane, è scomparsa dagli archivi giudiziari.
Nelle 800 pagine della motivazione della sentenza, i giudici della Seconda sezione della Corte d'assise di Caltanissetta si spingono lì dove ancora nessuna sentenza sui delitti eccellenti è andata. Il presidente Ottavio Sferlazza e il giudice a latere Giovanbattista Tona, vanno oltre quel contesto siciliano che è rimasto sino a oggi, nelle sentenze, ampiamente indefinito e genericamente indicato con l'espressione "convergenza di interessi fra mafiosi e colletti bianchi". Nella sentenza di Caltanissetta ci sono due nomi che hanno pesato molto in Sicilia, quelli dei potenti esattori di Salemi. E attraverso loro, il contesto degli interessi oscuri, si fa meno indistinto. Persino Bernardo Provenzano, l'evanescente capomafia ormai latitante da 1963 anni, prende forma e azione precisa nella sentenza di Caltanissetta. È lui, nell'estate dell'82 che incontra Antonino Salvo alla "Icre" di Leonardo Greco, a Bagheria, per ben quattro ore.
In quei mesi, i Salvo sapevano già che il consigliere istruttore Chinnici stava indagando sui loro affari. Ricordano i giudici di Caltanissetta: "Uomini d'onore della famiglia di Salemi. Avevano un ruolo di raccordo, nel panorama politico siciliano, quali esponenti di spicco di un importante centro di potere politico-finanziario, tra l'organizzazione Cosa nostra ed una certa classe politica". Il riferimento è a una parte della Democrazia Cristiana. Non ci sono soltanto i pentiti a testimoniarlo: "Il collegamento con la Dc tramite i Salvo - scrivono i giudici - risulta confermato dalle dichiarazioni del dottore Paolo Borsellino. Il giudice Chinnici - proseguono - aveva avuto un colloquio con Lima, sollecitato dall'onorevole Silvio Coco, nel corso del quale Lima gli aveva fatto presente che l'iniziativa giudiziaria concernente il Palazzo dei Congressi e l'arresto dell'imprenditore catanese Costanzo e di Di Fresco, veniva considerata una forma di persecuzione per la Dc; il magistrato aveva risposto che l'Ufficio istruzione si interessava di fatti specifici contestati a determinate persone, senza che potesse avere rilevanza l'appartenenza politica".
La Corte d'assise di Caltanissetta crede senza riserve alla ricostruzione proposta da Giovanni Brusca (al contrario di quanto avviene per Balduccio Di Maggio, che si è sempre dichiarato estraneo alla strage Chinnici, nonostante le accuse del boss di San Giuseppe Jato). Ci crede anche e soprattutto quando parla di mafia e politica e tira in ballo i "referenti romani" dei Salvo. Così nella motivazione c'è spazio anche per quel tassello che nella sentenza Andreotti era stato invece cassato: "Dal Governo centrale di Roma arriva una segnalazione - dice Brusca - un input da parte dell'onorevole Andreotti, facendo sapere a Lima, Lima ai Salvo, i Salvo me lo dicono a me e io lo porto a Riina. Dice di darci una calmata (nei delitti - ndr) perché sennò si era costretti a prendere dei provvedimenti. Riina mi rimanda dai Salvo: fagli sapere che gli fanno sapere che ci lascia fare, che noi siamo a disposizione per tanti favori che gli abbiamo fatto".
I Salvo, poco oltre la Cupola, punto d'inizio di una ricerca ancora da fare. Era lì - ne danno conto le motivazioni delle sentenza - che Chinnici voleva spingersi. "Ma Palermo, in genere è una città sonnolenta", disse il giudice poco tempo prima di morire parlando al Consiglio superiore della magistratura di un altro morto eccellente, il procuratore Gaetano Costa (assassinato il 6 agosto del 1980). I giudici di Caltanissetta hanno voluto trascrivere anche questo pensiero nella loro sentenza.
Salvo Palazzolo |